Continuiamo a camminare per Karimabad. Sopra il paese, in posizione elevata che domina gran parte della vallata, vi
è la fortezza di Baltit.
Questa era la residenza del Mir, il principe che governava sulla
regione.
Il
Palazzo del Mir a Karimabad (Baltit).
Il palazzo del Mir si trova in una posizione strategica: controllava
la via più diretta per accedere alle valli dello Swat e di Gandhara, una
strada che non era praticabile per gli animali da soma: potevano passare
solo uomini che, naturalmente, dovevano essere accompagnati dai portatori,
ma per farlo dovevano ottenere il permesso del Mir.
Il palazzo del Mir di Baltit consiste in un edificio fortificato
originariamente costruito nel XIII secolo. Nel corso dei secoli ebbe varie
ricostruzioni, anche per i danni che subì per terremoti ed incendi.
Curiosa è la storia del suo maggiore ampliamento, avvenuto nel corso del
XVII secolo: si racconta che il Mir dovesse sposare la figlia di un
ricco principe del Baltistan, ma che la sua dimora sulla rocca apparisse
modesta e non all'altezza dello sfarzo al quale la principessa era abituata
presso la sua corte. Così fece ampliare il palazzo.
Secondo altre trascrizioni sarebbe stato il padre della sposa ad inviare i
propri artigiani perché provvedessero al rifacimento del palazzo, e questo
sarebbe testimoniato dalle influenze tibetane sulla cultura baltisana.
E' difficile stabilire la verità, quando mancano delle fonti scritte e
tutto si riduce alla tradizione orale che ognuno abbellisce ed interpreta
secondo il proprio gusto.
Sempre lo stesso episodio viene riferito anche per far derivare il nome
Baltit da Baltistan!
Altre storie pretenderebbero di spiegare l'esistenza di due principati così
vicini, separati da un corso d'acqua, quello di Hunza e quello di Nagar.
Queste storie raccontano che all'inizio il paese fosse unico, governato da
una dinastia Ayeshe (celestiale) che era un ramo della famiglia Shahreis che
governava Gilgit: il primo sovrano musulmano di Nagar, Mayroo Khan, sposò
la figlia del principe di Gilgit, dalla quale avrebbe avuto due gemelli,
Moghlot e Girkis. Si dice che i due gemelli dimostrassero subito, fin dalla
nascita, ostilità fra loro. Il padre, non riuscendo mai a rappacificarli,
avrebbe diviso lo Stato tra di loro, assegnando a Girkis i territori a nord
del fiume (Hunza) ed a Moghlot quelli a sud (Nagar).
Albicocche
messe ad asciugare e seccare sui tetti piatti delle case.
Attorno al 1945 il Mir di Hunza
abbandonò la rocca, pur restando per ancora quasi trent'anni principe dello
Stato, per trasferirsi in un'altra residenza nella valle.
Oggi il palazzo che visitiamo si trova in una situazione di abbandono e di
decadenza: la principessa del Baltistan stenterebbe a riconoscerlo!
La nostra passeggiata continua portandoci anche fuori Karimabad. Passiamo
vicino ai frutteti ricchi di albicocchi: gli albicocchi costituiscono una
prerogativa femminile, al punto che fanno parte della dote personale delle
fanciulle che si sposano e poiché, chiaramente, non possono portarsi via il
frutteto paterno, dopo sposate vanno a cogliere i frutti dal giardino della
famiglia d'origine.
Le albicocche, così raccolte, vengono poste ad essiccare al sole: ogni
luogo va bene, anche una semplice roccia, ma in genere sono messe sulle
terrazze che fanno da tetto alle case.
Ed allora il panorama si arricchisce di queste macchie di colore.
Albicocche
messe ad asciugare e seccare su delle rocce.
Le albicocche, assieme a mele, pesche, uva e mandorle, costituiscono un
importante elemento della dieta degli Hunzukuts, fornendo un forte apporto
energetico e vitaminico.
Assieme all'osservanza di rigorose norme igieniche, anche relative alla
conservazione ed al consumo dell'acqua, questa popolazione viene ritenuta
addirittura immune dalle malattie, anche se chiaramente questa affermazione
appare abbastanza esagerata.
E' vero tuttavia che rispetto alle popolazioni vicine, che vivono in un
ambiente climatico uguale, gli Hunzukuts godono di maggiore salute.
Loro ritengono addirittura di essere di origine greca, discendenti da alcuni
soldati di Alessandro Magno che si sarebbero rifugiati nella valle.
Ma l'aver sviluppato delle caratteristiche così particolari deriva
piuttosto dall'isolamento in cui si sono trovati fino ad oggi e di vivere in
una economia chiusa.
Sicuramente le cose stanno rapidamente
mutando: i giovani Hunzukuts sono obbligati a prestare il servizio militare
nell'esercito pakistano e già questo fatto li costringere a vivere
esperienze differenti fuori della loro valle. Anche la costruzione della
Karakoram Highway li ha tolti dal loro millenario isolamento e
probabilmente, fra qualche decennio, sarà difficile identificare questa
valle con quella dove si trovava la Shangri-là descritta dallo scrittore
americano James Hilton (1900-1954) nel suo romanzo del 1933 "Lost
Horizon".
Karimabad:
attraverso un ponticello su un affluente del fiume Hunza.
Nel pomeriggio allunghiamo la nostra passeggiata superando un ponticello che
scavalca un fiumiciattolo affluente di destra del fiume Hunza.
Un po' più a valle c'è Altit, ma noi prendiamo il sentiero in salita che
ci porta ad una località chiamata Darandas.
Qui attorno, sulle pareti rocciose della montagna e su grandi massi rotolati
a valle, ci sono dei graffiti preistorici. Essi rappresentano soprattutto cervidi, forse stambecchi, ma su certe rocce
osserviamo anche delle iscrizioni in un alfabeto che, nella nostra
ignoranza, assomiglia a quello usato dai tibetani: a volte queste iscrizioni
si sovrappongono alle preesistenti scene di caccia.
Si tratta forse di scritte compiute dai viaggiatori che transitavano di qui.
La
parete rocciosa con i graffiti.
Cervidi,
o stambecchi, incisi in epoca preistorica sulle rocce.
Una
curiosa scala ad Altit.
Da ultimo vediamo anche ulteriori
scritte decisamente più recenti e quasi contemporanee per l'assenza di
quella tipica patina che il tempo depone sulle rocce: sono scritte in
cinese. Ipotizziamo -non sapendole leggere- che possano essere di
qualche viaggiatore proveniente dalla Cina attraverso il Khunjerab Pass,
oppure addirittura dei lavoratori cinesi che furono impegnati nella
costruzione del Karakoram Highway.
Ma di più, su questi graffiti di Darandas, non siamo riusciti a sapere,
tranne un generico «Very old» da parte della gente del posto. Chissà che
non li abbia studiati l'archeologo austriaco Karl
Jettmar e pubblicati in qualche suo studio?
La giornata di oggi è trascorsa così, con queste riposanti e gradevoli
passeggiate a Karimabad e dintorni.
Sono passate le quattro del pomeriggio e la valle comincia a cadere in
ombra: il sole è calato dietro le montagne ed immancabilmente si fa sentire
l'aria fredda. Non ci resta che rientrare al New Hunza Tourist Hotel e, dopo
cena, andare a dormire
sopra il tetto.
Anche questa mattina lasciamo fermo l'autobus e libero il nostro autista.
Panorama
verso Altit, sul quale svetta la rocca sopra i terrazzamenti
agricoli.
Vogliamo fare una passeggiata verso Altit. Per questo attraversiamo di nuovo
il solito fiumiciattolo che scende dall'Ultar Glacier ma, a differenza di
ieri, prendiamo il sentiero di valle.
I sentieri sono veramente stretti: infatti gli Hunzukuts hanno destinato
tutto quanto è possibile alla costruzione dei terrazzamenti agricoli ed i
viottoli raramente sono più larghi di un metro.
Già da lontano vediamo elevarsi la rocca di Altit con il suo caratteristico
torrione di avvistamento.
Il villaggio è veramente piccolo con le case modeste, sembrano costruite in
legno, pietre e fango, e più trascurate rispetto a quelle di Karimabad.
Prima di arrivare alla rocca, non possiamo non vedere accostata ad un muro
una scala: è ricavata da un unico tronco sul quale sono stati sagomati dei
primitivi scalini.
Questo tipo di scala è identico ad una scala che avevo visto, e
fotografato, in Mali,
presso un villaggio Dogon.
La
rocca di Altit.
Ci avviciniamo alla rocca di Altit:
anche questo era un palazzo fortificato usato come residenza dal Mir
di Hunza.
E' in uno stato di abbandono ancora più preoccupante del palazzo
di Baltit.
Possiamo oltrepassare la cinta muraria entrando nel cortile, ma il palazzo
vero e proprio è chiuso e non si può entrare per visitarlo. Infatti ci
dicono che è pericoloso, certe zone interne sono a rischio di crollo.
Dobbiamo quindi limitarci ad osservarlo dall'esterno, notare le imposte in
legno intagliate con dei motivi astratti che ci ricordano l'arte kashmira,
girare attorno al torrione d'avvistamento.
Sopra il torrione è collocata una scultura in legno che rappresenta uno
stambecco: questo ci ricorda immediatamente i graffiti
di Darandas che abbiamo visto ieri pomeriggio.
Altit,
torre d'avvistamento: l'immagine in legno di uno stambecco.
La
vallata desertica del fiume Hunza verso il confine con la Cina.
Continuiamo la nostra passeggiata nella vallata per essere puntuali alle 14
all'incontro con il nostro autista ed il nostro autobus: cercheremo di
percorrere la Karakoram Highway fino al punto estremo dove si può arrivare:
oltre c'è la Cina.
Naturalmente non è più l'Indo il fiume che costeggiamo, bensì l'Hunza.
Dopo pochi chilometri la vallata è irriconoscibile da quella che vedevamo a
Karimabad: non più verde, non più terrazzamenti agricoli, ma una vallata
desertica, dove non cresce nulla.
Fa eccezione un brevissimo tratto dove passa uno degli acquedotti più
periferici costruiti dagli Hunzukuts: l'acquedotto non si vede, ma si vedono
le sue tracce, cioè una linea netta di verde cresciuta sotto la conduttura,
favorita ed alimentata dalle infiltrazioni d'acqua e dall'umidità.
Una
linea verde di vegetazione segna il percorso di un acquedotto
degli Hunzukuts.
Nuvoloni
grigi nascondono le cime delle montagne.
La strada prosegue disegnando con delle curve il profilo della vallata e
delle montagne; a tratti ci troviamo anche a qualche centinaio di metri
sopra il fiume.
Il cielo, mentre la valle si incunea nella catena del Karakoram, che qui è
anche chiamato "piccolo Karakoram", si copre di grigie e basse
nuvole: chissà? Sono le nuvole ad essere basse o siamo noi che stiamo
salendo in alto?
Le curve si succedono, la strada si restringe a tratti a causa di piccoli
cedimenti franosi.
Alla nostra sinistra costeggiamo dei ghiacciai che terminano praticamente
sulla strada: dovrebbero essere le propaggini orientali del Batura, come
delle lingue di ghiaccio che scendono a valle recando con sé massi e
detriti. Ogni qual volta la strada si avvicina ai ghiacciai, la temperatura
scende di colpo e si è investiti all'improvviso da una corrente di aria
fredda e umida.
I
ghiacciai lambiscono la strada, e qualche volta se la portano
via!
La strada sparisce all'improvviso: manca per un centinaio di metri: al posto
dell'asfalto c'è uno sterrato di sassi e terra, ma sotto c'è il ghiaccio.
Il ghiacciaio, in quel punto, si è portato via la strada assieme ai massi
ed ai detriti: così è stata fatta questa cucitura d'emergenza.
Ogni tanto vediamo qualche gruppo di case lungo la strada: probabilmente
sono dei piccoli villaggi dei quali non sapremo mai il nome. Quando c'è
qualche scritta, questa è esclusivamente in arabo.
Ci
avviciniamo verso il ponte sul Batura: oltre non si passa!
Continuiamo ancora per qualche
chilometro sotto un cielo sempre più cupo. Cadono anche alcune gocce di
pioggia ghiacciata.
Sono quasi le quattro quando vediamo sulla sinistra un torrentello scendere:
dovrebbe essere il fiume Batura che proviene direttamente dall'omonimo
ghiacciaio.
In prossimità del punto in cui il Batura attraversa la strada, c'è un check-point
pakistano. Senza visti e senza permessi non si può andare oltre.
Ci
fermiamo: sulle rocce tra cui scorre
il fiume c'è del ghiaccio, tanto è gelida la sua acqua. Avvicinandoci
vediamo che non è solo acqua quella che scende, ma ci sono anche dei pezzi
di ghiaccio che il Batura si porta con sé.
Acqua gelida della quale ci si può fidare per dissetarci. Infatti tutti si
riempiono le borracce. Io mi cimento anche a succhiare un ghiacciolo del
Batura Glacier!
Alle
prese con un ghiacciolo del Batura Glacier!
I militari pakistani del check-point ci guardano con curiosità:
probabilmente non è molta la gente che vedono e forse ancora più rari sono
gli europei.
Sono armati e non parlano mezza parola d'inglese: è comunque chiaro che
oltre non si può procedere. Dopo il ponte sul Batura siamo ancora in
territorio pakistano, ma è una specie di terra di nessuno che sale e si
inerpica sulla montagna fino ai 4.693 metri del Kunjerab Pass dove passa
l'effettivo confine politico e geografico con la Cina. Il posto di blocco
cinese è dopo qualche chilometro.
Ma la Cina non accoglie visitatori e tanto meno turisti.
Cercando di farci comprendere dai militari pakistani a gesti e con tanti
amichevoli sorrisi, superiamo a piedi il ponte. I militari devono aver
capito che lo facciamo solo per scattare qualche fotografia e non dicono
nulla, continuando però a controllarci armati.
Poche decine di metri dopo il Batura Bridge un cartello pakistano dà le
indicazioni stradali chilometriche riferite non sappiamo a che cosa.
La
nostra sosta a Jaglot per il rifornimento.
Il cartello in realtà era stato
precedentemente scritto in rosso e in cinese; poi è stato riciclato dai pakistani con le
loro scritte in nero. E' il punto nel quale siamo stati più vicini alla Cina.
Accanto
ad un cartello che indica le distanze con altre località,
probabilmente già in Cina.
Non possiamo non pensare a quanti viaggiatori, commercianti, mercanti,
monaci, nei secoli passati abbiano attraversato questa vallata, con tante
difficoltà viarie maggiori delle nostre ma, forse, con meno difficoltà
burocratiche.
Ritorniamo sui nostri passi riportandoci al di qua del ponte: i militari
pakistani si tranquillizzano e noi ringraziamo e salutiamo con ampi sorrisi.
Nel frattempo il nostro autista aveva manovrato per girare l'autobus in
direzione del ritorno.
Arriviamo al nostro albergo di Karimabad quando è buio, in tempo per la
cena.
Alla mattina dobbiamo smontare le tende dal tetto dell'albergo. Poi c'è il
tempo di preparare i bagagli e, una volta fatta un'abbondante colazione,
siamo pronti alle 9.40.
Ma c'è un problema: siamo scarsi di carburante e l'autista vorrebbe
rifornirsi, ma deve andare a cercarlo.
Gli dimostriamo la nostra contrarietà e disappunto: ci eravamo preparati
con calma alla partenza; se avesse voluto avrebbe avuto tutto il tempo per
cercare di rifornire.
Così restiamo a terra e lasciamo andare l'autista alla ricerca del
carburante.
Ritorna dopo oltre un'ora: è riuscito a trovare cinque galloni, praticamente meno
di 25 litri, un niente per il serbatoio di un pullman!
Alla fine sono le 11.40 quando partiamo e lasciamo quest'oasi di verde che
c'è in questa parte della valle del fiume Hunza. Sono quasi le due del
pomeriggio quando troviamo il
fiume Gilgit ed alle 14.40 siamo alla confluenza del Gilgit con l'Indo.
A Jaglot ci fermiamo: qui hanno il carburante e qui anche sostiamo per
mangiare qualcosa.
Sosta breve ed alle tre e mezza si riparte. Ripercorriamo a ritroso il viaggio
dell'andata, forse con meno stupore e con emozioni meno forti dopo quello
che abbiamo già visto e vissuto.
Ripercorriamo
la vallata dell'Indo anche al ritorno.
E' buio, alle 18.00, quando siamo a Chilas.
Alla rest house ci confermano che il Babusar Pass continua ad essere
impraticabile per il nostro mezzo.
Andiamo a letto ipotizzando un ritorno per la valle dello Swat, per evitare
di ripercorrere integralmente la strada dell'andata.
Alla mattina cerchiamo di andare più a fondo sul discorso del Babusar Pass.
A Chilas ci sono alcune officine che dispongono di jeep che si possono
noleggiare. Secondo loro il Babusar Pass, per i loro mezzi, è praticabile;
invece non sarebbe percorribile con un autobus come il nostro.
La questione prende dunque un altro aspetto. Noi potremo noleggiare due jeep
per compiere il ritorno via Babusar Pass, incuneandoci nel gruppo del Nanga
Parbat e scendere attraverso la Kaghan Valley.
Il nostro autobus, vuoto, potrebbe invece ripercorrere la Karakoram Highway
e potremo incontrarci, per proseguire con il nostro autista, a Balakot.
L'accordo sembra fatto, abbiamo anche stabilito il costo delle due jeep, ma
sembra che il destino si accanisca contro il nostro desiderio di affrontare
gli scenari del Babusar: si tratta di un territorio di frontiera, con una
forte presenza militare e numerosi check-point, per entrare nel quale
è necessario ottenere un apposito lasciapassare che non viene rilasciato
immediatamente (occorrono uno o due giorni).
A questo punto non possiamo permetterci di sprecare altro tempo per ottenere
i permessi.
Ripieghiamo pertanto sull'idea di ieri sera: portarci sulla valle dello Swat
e scendere verso Rawalpindi per quella via.
Partiamo dunque da Chilas quando sono le 11.20.
Ripercorriamo la Karakoram Highway che già avevamo fatto in andata.
Scompare la vista del Nanga Parbat e resta solo l'Indo con la sua vallata
desertica.
Dopo circa tre ore dovremo essere nuovamente nella regione del Kohistan.
Ci fermiamo per mangiare qualcosa lungo la strada in uno di quei piccoli
agglomerati di case che forse formano anche un villaggio il quale forse ha
anche un nome, che noi però non conosciamo.
Quando
ci si ferma in uno di questi piccoli villaggi, si è osservati
con curiosità dalla gente del posto, come questi anziani che
passano il tempo seduti sul "charpov", spesso fumando
nel narghilè ed immancabilmente armati.
Ci si ferma il minimo necessario, scrutati dalla curiosità degli
anziani del posto, ed
alle 15 siamo di nuovo nell'autobus diretti a sud. Quanto la strada in
andata mi si presentava affascinante e colma di interesse, tanto ora, che la
ripercorro di ritorno, mi appare monotona ed interminabile. Una specie di
effetto déjà vu.
A Besham ci fermiamo per rifornire di carburante e noi ci concediamo una
sosta fisiologica.
Sono le cinque e comincia a fare scuro.
Qui a Besham il fiume Kana si getta nell'Indo che rimbomba dal fondo di una
gola.
Alle 17.20 riprendiamo la strada.