D'accordo con l'autista del nostro
pulmino, modifichiamo l'ordine delle visite: oggi è martedì e non
possiamo perdere l'occasione di assistere al pellegrinaggio che ogni sabato
e, appunto, ogni martedì si svolge al tempio di Kali, a Dakshinkali.
Ci facciamo preparare tè in abbondanza dai ragazzi della cucina del Valley
View, facendo finta di non vedere le condizioni in cui si trova e
raccomandandoci che l'acqua sia fatta bollire per diversi minuti, in modo da
annientare i germi ed i batteri che potrebbero provocarci fastidiosi
inconvenienti.
Intanto acquistiamo frutta e biscotti in una bancarella nelle vicinanze
dell'albergo, così risolviamo il problema del mangiare qualcosa durante la
giornata.
Dakshinkali si trova ad una ventina di chilometri a sud di Kathmandu,
distanza che percorriamo in poco meno di un'ora. L'ultimo tratto però
dobbiamo affrontarlo a piedi.
Lasciato il pulmino, la strada si addentra in una gola ombreggiata dove,
sullo sfondo, scorre il Khali Khola.
Non siamo soli: c'è un non numeroso ma continuo pellegrinaggio di gente che
cammina con noi: uomini e donne di ogni età e, da come sono vestiti,
sembrano appartenere ad ogni estrazione sociale. Qualcuno porta sulle spalle
un capretto, o una pecora, chi una gallina o un'anatra.
Il sentiero termina ed inizia una discesa lungo una scalinata che
fiancheggia la gola; in fondo vediamo un ponte che oltrepassa il fiume Khali
Khola.
Ben presto ci accorgiamo che in realtà i ponti sono due: tutta la gente si
dirige
su quello più in fondo mentre dal primo ponte che incontriamo vengono
persone che risalgono in senso opposto. Sicuramente sono stati previsti per istituire una
sorta di sensi unici nelle giornate in cui l'afflusso di fedeli è più
numeroso, come durante la festa più importante per il popolo nepalese, il
Dashain.
Dopo gli scalini, la strada costeggia il fiume, mentre sull'altro lato ci
sono delle basse costruzioni e, immaginiamo, il tempio.
Il
luogo dei sacrifici: un capretto con la testa mozzata.
Passiamo davanti ad un edificio con
una sequenza di piccole stanzette, quasi delle celle, aperte sul lato della
strada. Vi stanno seduti, ciascuno nel proprio spazio, delle persone in
meditazione, forse degli asceti.
Ciascuno ha davanti a sé un basso tavolino coperto da una stoffa rossa sopra la
quale è posto un libro aperto e qualche fiore.
La gente, passando davanti a loro, lascia cadere in una ciotola qualche monetina.
Più in là donne preparano ghirlande di fiori, rossi e gialli, da vendere
ai pellegrini come offerta alla dea.
Un'anziana mi si avvicina con una scodella nella quale tiene della polvere
color ocra con la quale mi segna sulla fronte, tra le sopracciglia, il punto
del sesto chakra (ajna), la sede della saggezza nascosta.
Proseguiamo per una stradina che sale leggermente sulla collina lambendo il
bosco per avere una visione dall'alto di tutto l'assieme.
Anche lungo questo viottolo ci sono dei tempietti con delle nicchie, forse
dei capitelli, dove sono stati messi fiori, unguenti e pietre ricoperte con
una polvere rossa.
Si gira attorno al santuario dal quale sale una nuvola di fumi d'incenso.
Sul tetto dorato si alzano agli angoli quattro serpenti che si incontrano al
centro sorreggendo una specie di baldacchino.
Quattro
serpenti di bronzo dorato sorreggono la copertura del tempio.
Completato il giro, ridiscendiamo nello spazio centrale del santuario dove
assistiamo ad una vera e propria carneficina di animali che sono portati qui
per essere sacrificati alla dea.
Un lato del cortile è tutto ricoperto di piastrelle, ma è difficile
distinguerle, ricoperte come sono di sangue. Davanti stanno quelli che io
chiamerei i macellai: prendono in consegna l'animale e con un colpo secco di
coltello recidono di netto la testa mentre dalla vena giugulare escono
fiotti violenti di sangue.
Uno dopo l'altro la carneficina continua ed i fedeli si portano via l'animale
macellato.
Non è un semplice atto di crudeltà, come può apparire ai nostri occhi, ma
per i nepalesi è quasi un atto d'amore: nella convinzione che in
quell'animale si sia incarnato un qualche uomo, magari un loro parente o
antenato, vogliono dare la possibilità, con la morte dell'animale, che
quello spirito, avendo espiato le colpe nel suo stato animalesco, con la
morte possa tornare a diventare l'uomo che era prima con la reincarnazione.
E' tanto il sangue per terra e sulle pareti che ogni tanto un inserviente lo
spazza via con i getti d'acqua di una pompa.
Ed il rito prosegue.
Ritorniamo verso il pulmino ed intanto vediamo sulle rive del fiume Khali
Khola i fedeli che eviscerano , scuoiano e lavano gli animali che sono stati
appena macellati in onore della dea: per quelle famiglie saranno la cena dei
prossimi giorni.
La
cima della collina di Swayambhunath con i vari templi dominati dal
grande stupa.
Riprendiamo il
pulmino
e ripercorriamo per buona parte la strada che avevamo percorso per venire.
Giriamo ad una deviazione e ben presto ci inerpichiamo su una collina.
Lasciamo il nostro mezzo per compiere l'ultimo tratto a piedi salendo per
una scalinata che, ci dicono, dovrebbe avere 365 gradini: ma noi veramente
non li abbiamo contati.
Durante la salita scorgiamo alcuni piccoli stupa e immagini di
Buddha. C'è anche qualche scimmia, la cui origine è leggendaria.
Siamo a Swayambhunath, uno dei massimi luoghi del buddhismo nepalese. Si
tratta di un vasto complesso che sorge attorno ad un enorme stupa
centrale che è certo la cosa che più impressiona.
E' anche chiamato "Tempio delle scimmie", per la costante
presenza di questo animale, soprattutto nella zona nord-occidentale.
Nessuno le scaccia e sono considerate un animale sacro. Infatti il bodhisattva,
mentre stava sollevando questa collina, non aveva tempo per tenere i
capelli corti, che così crebbero diventando lunghi e nei suoi
cappelli si annidarono dei pidocchi. La leggenda racconta che questi
pidocchi furono trasformati nelle scimmie che ancora abitano la collina.
Pur essendo tra i più antichi santuari del Nepal, non si hanno notizie
certe sulla sua costruzione, se si eccettuano quelle leggendarie o di
fonte non sicura.
Lo stupa subì nel tempo manutenzioni e restauri: quello più
antico del quale si ha una data certa fu fatto tra il 1529 ed il 1605,
come attesta una iscrizione.
Il
percorso con i tamburi di preghiera attorno allo stupa.
Gli
occhi compassionevoli di Buddha sul "harmika" dello
stupa di Swayambhunath.
Il
grande stupa è formato da una cupola semisferica (anda) con
un ingresso (torana) sormontato da un cubo (harmika) su cui
svettano gli ombrelli, dei dischi attraversati da un pilastro
centrale (il pilastro cosmico). I tredici ombrelli (il numero può
variare dagli stupa, secondo le loro dimensioni, ma deve essere sempre
dispari) simboleggiano i passaggi necessari per raggiungere l'illuminazione.
Sui quattro lati del harmika sono dipinti i due occhi compassionevoli
di Buddha che così guarda in tutte le direzioni. Il simbolo dipinto tra i
due occhi potrebbe far venire in mente un naso stilizzato. Ma in realtà non
è così: è invece un antico simbolo nepalese che significa "unità".
Lo stupa è circondato tutto attorno da una struttura metallica che
regge i tamburi di preghiera: è il percorso processionale che ogni fedele
deve compiere, tenendo lo stupa alla propria destra.
Su ogni tamburo è inciso un mantra: una preghiera o invocazione.
Facendo roteare il tamburo è come ripetere quella preghiera.
Ma Swayambhunath non è solo lo stupa: tutto attorno ci sono edifici
di pertinenza buddhista: collegi, scuole di preghiera, librerie
specializzate in testi buddhisti, sedi di associazioni tibetane. Compiendo
anche noi il percorso processionale attorno allo stupa, non guardiamo
solo a quello ma anche a tutto ciò che vi sta attorno.
Mettiamo con discrezione la testa dentro in questi edifici: all'interno sale
di preghiera e anche di studio, a volte dipinte con gli stessi colori vivaci che si
incontrano dentro i monasteri buddhisti.
Palazzi
semiabbandonati a Kirtipur.
All'esterno
molte sono le pareti con i mattoni a vista: a volte, ad ornamento, sono
incastonati frammenti di bassorilievi e di iscrizioni che sembrano
antichi.
Su un lato c'è anche un piccolo mercato: poche povere cose del luogo: e
proprio accanto a questo piccolo mercatino c'è un altro tempio, la pagoda
dedicata a Shitala. Ma non è da solo a fare coronamento al grande stupa:
ci sono attorno forse centinaia di piccoli stupa, di pilastri sacri
e persino un tempio a shikhara.
Da
Swayambhunath si domina la valle di Kathmandu.
Prima di ridiscendere ci godiamo il bel panorama che si ammira da
quassù su Kathmandu e la sua vallata.
Ripercorriamo in discesa la lunga scalinata per raggiungere il nostro
pulmino: abbiamo ancora qualche ora di tempo, quindi invece di ritornare
a Kathmandu decidiamo di andare a visitare Kirtipur; d'altra parte si
tratta di neppure 10 chilometri.
Kirtipur è una delle più antiche città della valle di Kathmandu,
costruita sulla cresta di una collina che domina la pianura. Pare sia
stata fondata nel XII secolo da Re Shiva Deva. Il suo nome deriva dalle
parole kirti (pace) e pur (città), quindi città della
pace. Esiste anche una leggenda che narra, ma non ci sarebbe un riscontro
puntuale, che una volta vi avrebbe regnato una principessa dal nome Kirti
e che dunque la città avrebbe preso il nome da lei.
Divenne famosa per la sua resistenza all'epoca dell'invasione dei Gurkha.
Qui venne combattuta una delle più cruente battaglie: i Gurkha nel XVIII
secolo ambivano a prendere possesso della vallata di Kathmandu, per il suo
clima che permetteva una fiorente agricoltura e per la sua posizione
strategica favorevole agli scambi commerciali.
Per conquistare Kirtipur, i Gurkha sferrarono complessivamente tre assalti
(nel 1757, nel 1764 e nel 1767) sottoponendola anche ad un blocco per
impedire l'approvvigionamento di derrate alimentari.
Durante la resistenza ai Gurkha, si distinse anche una donna newar
di Kirtipur, Kirti Laxmi, che travestita da uomo combatté gli invasori
anche dopo che la città era caduta nelle loro mani: imprigionata, si
tolse la vita piuttosto che cedere agli invasori.
La feroce battaglia che piegò la resistenza della città ebbe anche la
testimonianza di un padre cappuccino italiano, padre Giuseppe, Prefetto
della Missione Romana, che testimoniò la crudeltà di quella battaglia e
le mutilazioni che vennero inflitte per vendetta ai difensori ai quali
furono amputati il naso e le labbra: «...la cosa più sconvolgente da
vedere erano le persone vive con i denti e i nasi che le facevano
assomigliare a dei teschi di un morto».
Un
tempietto ricavato nella cavità di un albero.
Si
dice che furono 885 le persone che subirono questa tortura.
In tempi più recenti (1974) la città è stata scelta da Pier Paolo
Pasolini per ambientarvi alcune scene del film "Il fiore delle mille
e una notte", dove ha girato anche alcuni cortometraggi.
Lasciamo il pulmino sulla strada, ai piedi della città, e ci
incamminiamo per la via che porta verso il centro.
Sembra di camminare in un mondo fiabesco, tornando indietro di molti
secoli: possiamo capire come Pasolini si sia innamorato di questo luogo! Il
sentiero lastricato si inerpica in salita tra vecchie case della
periferia: il passo è aiutato da scalini irregolari e sconnessi.
C'è
persino una portantina abbandonata tra i vecchi palazzi di
Kirtipur.
Non incontriamo molte persone: giovani donne che allattano, uomini che
trasportano sulle spalle carichi di verdure, un gruppo di giovani seduti
per terra in circolo che discutono, o forse studiano.
Davanti a vecchie case di mattoni a due piani si apre un vasto spiazzo nel
quale è scavata una cisterna d'acqua dove altre donne lavano i panni ed
un'altra i cappelli.
Attraverso una porta semiaperta scorgiamo una ragazza che tesse ad un
telaio.
Dai balconi in legno appaiono per un attimo le teste timorose di bimbi che
curiosi gettano uno sguardo su questi visitatori, che evidentemente sono
ben rari.
Gli edifici sono tutti vecchi e, pur essendo abitati, danno un'idea di
abbandono.
Tuttavia nei secoli passati devono aver visto momenti di splendore: erano
palazzi importanti, come testimoniano le elaborate balconate in legno
intarsiato.
Vediamo alcuni piccoli stupa. Ma quello che desta maggiormente la
nostra attenzione è un albero dal grosso tronco ricoperto di radici che
si aprono formando una cavità naturale: davanti alla cavità due leoni in
pietra sono posti di guardia.
Avvicinandoci di più scorgiamo, all'interno della cavità, una lastra di
pietra con un bassorilievo che rappresenta una divinità, probabilmente
Shiva.
Il
bassorilievo "Dharti Mata".
Arriviamo
nella piazza centrale della città, dove c'è un po' di gente.
Qui ci sono gli edifici principali ed i templi.
Il più importante è il Bagh Bhairav dedicato a Shiva, il dio terribile e
distruttore.
E' una costruzione sormontata da un triplice tetto sostenuto da mensole
decorate. Alle finestre superiori, a mo' di decorazione, sono affisse
delle armi antiche: sono quelle catturate ai Gurkha invasori nel XVIII
secolo.
L'ingresso
al tempio Bagh Bhairav di Kirtipur.
Da qui siamo come su una terrazza panoramica che domina la valle di
Kathmandu.
A fianco del Bagh Bhairav, protetta da un recinto di ferro, c'è una
pietra sul selciato: un bassorilievo rappresenta la nascita di Shiva nel
momento in cui esce dall'utero materno.
E' un'immagine assai inconsueta, forse unica, che risale probabilmente
alla fine del XIX o inizi del XX secolo.
Sulla parte superiore della cornice che racchiude il bassorilievo è
scritto, in newari, «DHARTI MATA» che si traduce come
"Madre Terra".
Attorno ci sono tre figure che dovrebbero rappresentare Vishnu, Brahma e
Mahadev.
E' una raffigurazione tutto sommato misteriosa che probabilmente ha un
significato solo per gli iniziati.
Ma non possiamo stare qui ancora per molto e dobbiamo riprendere il
cammino, questa volta in discesa, per raggiungere la strada principale
dove ci aspetta il pulmino.
In breve siamo a Kathmandu e ci facciamo lasciare vicino al centro della
città. Ci separiamo, ognuno ad esplorare qualche angolo di questo
fascinoso e vivibile luogo.
Io
passeggio per quella che è chiamata Freak Street, una volta ritrovo degli
hippies di tutto il mondo: oggi è trafficata da turisti e locali
che di alternativo hanno ben poco.
Mi fermo a mangiare in un ristorante vegetariano gestito da due ex
"fricchettoni" olandesi.
Poi il sempre piacevole rientro notturno verso l'albergo, a piedi.