Finalmente alle 12.35 decolliamo
e, dopo alcune iniziali turbolenze in quota, abbiamo un volo relativamente
tranquillo fino a Colombo, dove arriviamo in circa 4 ore.
Usciti dall'aeroporto, subiamo il consueto assalto di tassisti,
trasportatori, intromettitori, ma noi abbiamo già l'indirizzo dell'albergo
in cui andare, il Colombo Hotel Concord.
Colombo è la capitale dello Sri Lanka, che significa letteralmente
"isola splendente"; fino al 1972 era conosciuto con l'antico nome
di Ceylon.
Marco Polo (1254-1324) chiama l'isola
«Seilan» e così la descrive nel suo "Milione" (dal
codice 1116, manoscritto quando Marco Polo era ancora vivente, conservato a
Parigi presso la Bibliothèque Nationale de France, tradotto da Maria
Bellonci) «Si parte da Angaman [isole Andamane - N.d.R.] e quando
si è navigato in direzione di ponente piegando un poco verso garbino
[libeccio - N.d.R.] quasi per mille miglia si trova l'isola di Seilan che è
davvero la maggiore isola del mondo per grandezza avendo un perimetro di
duemilaquattrocento miglia. In antico era anche più grande e il suo
perimetro era di tremilaseicento miglia come è segnato nelle mappe dei
marinai di quel mare; ma il vento di tramontana batte con tanta forza che
una parte dell'isola è stata sommersa dalle acque; e per questa ragione non
ha più la vastità che aveva un tempo. L'isola è molto bassa e tutta
piana, e chi arriva dal mare si accorge della terra solo quando vi è sopra.
Vi parleremo un po' di quest'isola. Hanno un re che si chiama Sendeman
[potrebbe essere un soprannome, invece che il nome - N.d.R.], sono
idolatri, non pagano tributo a nessuno. Vanno tutti nudi all'infuori di una
copertura sull'inguine, non hanno grano né vino ma sesamo col quale fanno
l'olio. Vivono di latte, di carne e di riso, bevono il vino d'alberi
(...) ed hanno abbondanza di legno verzino, il migliore che esista».
Sri
Lanka è chiamata Saylam nel mappamondo di Fra Mauro (circa 1450)
conservato a Venezia. L'orientamento della raffigurazione non è
quello odierno: il Nord è in basso, il Sud in alto.
E più avanti: «Seilan, come ho detto
già in questo libro, è una grande isola. Quest'isola ha una montagna molto
alta, dalle pareti così scoscese che nessuno potrebbe salirvi se non nella
maniera che vi dirò: dall'alto della montagna pendono molte catene di ferro
congegnate e fissate in tal maniera che gli uomini possono arrampicarsi
aiutandosi con le catene fino al sommo della montagna».
Il riferimento è fatto all'Adam's Peak, che pur non essendo la montagna
più alta di Sri Lanka (la pù alta è il monte Pidurutalagala, di 2.524
metri) è certo la più famosa.
Marco Polo già sapeva che era un luogo sacro per diverse religioni: i
cristiani e i maomettani che ritenevano che qui si fosse rifugiato Adamo
dopo la cacciata dal Paradiso terrestre fino a morirvi; per i buddhisti che
invece ritengono che sia stato visitato da Shiva Adipadham. Un'impronta che
assomiglia a quella lasciata da un piede umano, lunga m. 1,80, viene
alternativamente attribuita ad uno di questi personaggi. Tra l'altro è da
ricordare che Marco Polo è stato il primo occidentale a narrare la vita di
Buddha, come viene ricordato in questa
pagina.
Colombo, da dove iniziamo il nostro breve viaggio a Sri Lanka, ha origini
antichissime: ne parla già il pellegrino cinese Fa-Hsien che tra il 411 ed
il 413 d. Cr. si trovava alla corte di Re Mahanama ad Anuradhapura: nella
sua relazione racconta che si imbarcò a Kua-Lang-Pu: è il porto di Kalambu
(Colombo) che verrà citato quasi mille anni più tardi (nel 1344) da Ibn
Battuta (1304-1368 o 1369), grande esploratore e viaggiatore berbero.
Ma
in realtà le origini del porto di Colombo sono ancora più antiche: ai
tempi dell'Imperatore Augusto (27 a. Cr. - 14 d. Cr.) era frequentato dai
marinai romani e greci che scambiavano commerci con quelli arabi ed una
iscrizione in caratteri cufici scoperta a Colombo dimostra l'esistenza di
una comunità musulmana sulla costa occidentale dell'isola nel 929-930 d.
Cr.
Il "Kolambu" arabo divenne "Colombo" con l'arrivo dei
portoghesi.
Pur non essendo moltissimi, Colombo conserva dei luoghi di sicuro
interesse, ma data l'ora del nostro arrivo e la necessità di organizzare
il trasporto per l'indomani, non abbiamo la possibilità di visitarli.
Il
riso dalla bilancia direttamente alla borsa del consumatore!
Dobbiamo
quindi limitarci a girare non troppo lontano dall'albergo, dove c'è una
zona di mercato che, a causa dell'ora, è in fase di chiusura.
La partenza per l'indomani è fissata alle 10.
Il giorno dopo, più per
occupare il tempo che per un reale interesse, si torna a girare tra le
botteghe, per le strade vicine e per i marciapiedi dove ci capita di incontrare anche
due incantatori di serpenti.
Due
incantatori di serpenti su un marciapiede di Colombo.
Finalmente, con un ulteriore ritardo, si fa vedere il pulmino che avevamo
prenotato e possiamo cominciare il nostro tour dell'isola con il proposito
di visitare le quattro antiche capitali (la quinta, l'ultima in ordine di
tempo, è appunto Colombo).
Ripercorriamo in senso inverso la strada fatta ieri sera: infatti si
tratta della litoranea che, nei primi trenta chilometri, unisce Colombo al
proprio aeroporto.
La
strada litoranea costeggia la costa di Sri Lanka dirigendosi verso
il nord del paese.
Superato
quest'ultimo la strada costeggia una laguna tra rigogliose macchie di
palme da cocco e coltivazioni di cinnamomo (conosciuto familiarmente come
cannella).
All'ingresso della laguna c'è Negombo, un villaggio di pescatori, sede di
un importante centro di pesca che conserva alcune vestigia architettoniche
risalenti alla dominazione olandese.
Dopo circa 130 chilometri, a Puttalam, la strada abbandona la costa e
piega verso l'interno: alla nostra sinistra si estende la riserva naturale
di Wilpattu che si può visitare in fuoristrada alla ricerca dei luoghi
frequentati dai leopardi e dagli orsi, abitata da uccelli acquatici di
ogni specie.
Noi invece facciamo una sosta lungo la strada vicino a Kala Oya presso quello che
sembra essere una via di mezzo tra il posto di ristoro ed un mercato.
Gli ananas sono ottimi, maturi, dolci e dissetanti. Qui te li preparano al
momento: li sbucciano con un enorme coltellaccio conservando il gambo del
frutto che diventa così una specie di manico.
Tenendolo come fosse un gelato con il bastoncino, si mangia tutta la polpa
attorno lasciando il torsolo centrale: inevitabilmente impiastricciandoci
il mento e -per chi la porta- la barba!
Ristoro
lungo la strada, vicino a Kala Oya.
Alla ripartenza il pulmino si rifiuta di ripartire: probabilmente si
tratta di un problema al motorino di avviamento.
Così tutti assieme ci mettiamo a spingere: qualche sussulto, qualche
colpo di tosse del motore, ed alla fine si riparte.
Partenza
"a spinta" per il nostro pulmino.
La strada ci porta sempre più all'interno dell'isola, tra una verdissima
vegetazione rigogliosa di frangipane e di baniani, fino ad arrivare,
quando manca poco al tramonto, ad Anuradhapura, dove ci sistemiamo in una rest
house.
Riusciamo a fare un minimo giro di orientamento nel complesso prima che il
sole cali definitivamente dietro gli alberi più alti.
Anuradhapura venne fondata nel IV secolo a. Cr. sul luogo del villaggio di
Anuradha divenendo la prima capitale di Ceylon. Le origini,
probabilmente su un insediamento più antico, sono avvolte abbondantemente
dalla leggenda: ce ne parla il grande poema epico buddhista Mahavamsa la
cui prima parte venne completata da un monaco nel V secolo d. Cr.
riportando tradizioni precedenti provenienti da fonti diverse.
Il mitico fondatore della città sarebbe stato Pandukabhay, un seguace del
leggendario principe Vijaya, approdato sull'isola fondandovi il proprio
regno.
Le date non sono attendibili
e appaiono costruite per far coincidere simbolicamente l'arrivo di Vijaya
a Ceylon con il Parinirvana di Buddha, come una profetica investitura
divina.
Probabilmente tutta la cronologia dovrebbe essere posticipata ed infatti
oggi si indica attorno all'anno 380 a. Cr. l'inizio del regno di
Pandukabhay e di conseguenza il momento in cui Anuradhapura può essere
considerata la prima capitale.
Lo fu ininterrottamente, con una parentesi di 18 anni tra il 477 ed il 495
d. Cr., fino al X secolo dopo Cristo, quando venne abbandonata.
La giungla riprese il possesso dei propri spazi e la fece sparire sotto la
sua vegetazione.
L'Insurumuniya
Gala Vihara, o tempio rupestre.
La mattina dopo, di buon'ora, cominciamo la nostra visita dal
complesso del monastero che comprende anche il cosiddetto tempio rupestre,
o Insurumuniya Gala Vihara, tagliato nella roccia ai tempi del Re Tissa
(250-210 a. Cr.).
Il
Giardino Reale che venne costruito per gli svaghi della famiglia reale.
E' probabilmente il complesso più
antico di Anuradhapura. Sulle pareti di pietra sono scolpiti a bassorilievo
decorazioni rappresentanti elefanti, figure e poi statue fra cui mithuna
(coppie di amanti), cavalieri, gana (nani). Altre statue accompagnano
il visitatore che sale la scala: sono poste ai lati ed in cima.
Il tempio ospita una statua di Buddha seduto. Superata la scala e
percorrendo una stretta via tra le rocce, giungiamo al dagoba
superiore.
Oltre il complesso si apre uno dei più ameni luoghi di Anuradhapura, il cosiddetto
Giardino Reale, uno dei vari parchi che vennero costruiti per gli svaghi
della famiglia reale.
Costruito durante il regno di un nipote di re Pandukabhaya, Devanampiya
Tissa, sotto il cui regno venne introdotto il buddhismo, si affaccia su un
lago artificiale, il Tissa Wewa, alimentato da un fiumicello, anch'esso
artificiale.
I padiglioni che si elevavano una volta, oggi non esistono più, ma si può
godere di una vista d'assieme del complesso da una specie di belvedere sopra
l'Insurumuniya.
Ci incamminiamo verso il Basawak Kulam, uno dei grandi bacini idrici di cui
venne dotata Anuradhapura.
Qui vicino si trova il museo che ospita statue, sculture e frammenti, per lo
più provenienti dagli scavi del sito.
Una
raffigurazione di Shiva danzante (Shiva Nataraja) conservata nel
Museo Archeologico di Anuradhapura.
La
cupola del dagoba Ruvanvelisaya.
Non ci deve stupire se troviamo anche divinità induiste: proprio qui ad
Anuradhapura infatti si succedettero sovrani buddhisti ed induisti.
Inoltre sono presenti anche dei modellini che mostrano come dovevano
apparire in origine certi templi di cui oggi vediamo solo rovine, alcune
coperte dalla vegetazione della giungla. Poco più in là c'è il museo
etnografico.
Dal museo ci avviciniamo al dagoba Ruvanvelisaya, terzo in ordine
di grandezza. Venne costruito nel II secolo a. Cr. da Re Dutthagamani e
probabilmente completato successivamente.
Questa imponente struttura venne ricostruita in gran parte attorno agli
anni Trenta del XX secolo.
Il grande catino rovesciato poggia su una serie di piattaforme.
All'interno del complesso si trova la stanza della reliquia, alla quale si
accede per uno stretto passaggio.
Un
passaggio interno nel dagoba Ruvanvelisaya.
Centinaia
di elefanti sul muro perimetrale del recinto del dagoba
Ruvanvelisaya fanno la guardia al tempio.
Caratteristico di questo dagoba è il muro perimetrale che circonda
la base della piattaforma inferiore: è decorato da centinaia di elefanti,
uno diverso dall'altro. Ritroviamo il motivo degli elefanti, di foggia
differente e di dimensioni più piccole, anche su alcune modanature alla
base di altre strutture del complesso.
Non è solamente un monumento archeologico, ma anche -e vorrei dire
soprattutto- un luogo di culto: numerosi sono i pellegrini che vi giungono
per pregare e non è difficile scorgere anche le tipiche preghiere buddhiste
affidate al vento all'interno della piattaforma principale o presso i
numerosi tempietti e pilastri che ci sono attorno al grande catino. Proseguendo nel nostro cammino incontriamo il tempio che racchiude il Bodhi
(o Bo) Tree.
Vi si accede salendo pochi gradini preceduti, come praticamente in tutti i
templi di Anuradhapura, da una "pietra di "luna".
Si tratta di una pietra a semicerchio, come una mezza luna, con motivi
decorativi posti in fasce concentriche.
I motivi, che possono essere diversi, non sono solamente decorativi, ma simbolicamente
rappresentano il percorso che ogni uomo dovrebbe compiere, partendo da una
condizione selvaggia ed animalesca per arrivare a quella di elevazione
spirituale rappresentata dal fiore di loto finale dell'illuminazione.
Una
foresta di colonne: tutto quello che resta del Palazzo di rame (Lohopasada).
Una
delle tante "pietre di luna" che si incontrano ad
Anuradhapura.
Varcata la soglia, ci si ritrova in un ambiente luminoso dove, davanti a
delle immagini di Buddha poste entro delle nicchie, i fedeli pregano e
depongono offerte di fiori.
Quello che noi attraversiamo è solo un androne d'ingresso al tempio che è
a cielo aperto: un vasto recinto, costellato da alcune costruzioni,
racchiude, difeso da una cancellata, il sacro albero, o Bodhi Tree (Ficus
religiosa) ricavato da quello stesso albero sotto il quale Bodhgaya
Siddharta ricevette l'illuminazione diventando Buddha (bodhi,
illuminazione).
Il
Bodhi Tree, cresciuto da un germoglio dell'albero sotto il quale
Bodhgaya Siddharta ricevette l'illuminazione.
Fu la figlia dell'Imperatore Ashoka (304-232 a. Cr.), la monaca Theri
Sanghamitta, a portare in dono al re di Anuradhapura Devanampiya Tissa un
germoglio di quell'albero che, si dice, piantò personalmente.
Più tardi, nel XVIII secolo, venne eretto un muro per recintare il Bodhi
Tree e proteggerlo dal passaggio degli elefanti.
Tuttora quest'albero viene considerato storicamente l'albero più antico del
mondo.
Non mettiamo in dubbio che sia discendente di quello stesso albero sotto il
quale Siddharta ricevette l'illuminazione, ma è difficile immaginare che si
tratti dello stesso arbusto piantato da Re Tissa dal momento che le
aspettative di vita di questa pianta, nella più ottimistica delle ipotesi,
raggiungono i quattro o cinque secoli.
D'altra parte anche l'albero di Bodh Gaya non dovrebbe essere più quello
originale: nel 1956, in occasione dei 2.500 anni dalla morte di Buddha, una
talea proveniente da quello di Anuradhapura venne piantata a Bodh Gaya, dove
attecchì, compiendo il percorso inverso di quello fatto fare dalla
principessa Sanghamitta.
Si dice che già nel 1876 il Ficus religiosa di Bodh Gaya, piuttosto
malandato, venne abbattuto da una tempesta e reimpiantato e che in
precedenza, al momento delle invasioni islamiche, era già stato abbattuto
quando il tempio che vi sorge accanto venne distrutto.
Il luogo del Bodhi Tree è il più visitato tra quelli di Anuradhapura, non
solo dai turisti, ma soprattutto dai devoti che qui giungono e pregano,
accendono lumini, pongono bandiere votive e ghirlande di fiori.
Arriviamo così ad una sorta di foresta formata da centinaia di pilastri,
alcuni diritti, altri inclinati o abbattuti: questi pilastri sono una
costante di Anuradhapura: erano pilastri che reggevano costruzioni che oggi
non ci sono più e che sostenevano coperture per dare riparo ai pellegrini
oppure, in qualche caso, i resti di quello che era il Lohopasada, o Palazzo
di rame, così chiamato per la copertura del tetto.
Venne costruito dal Re Dutthagamani (che regnò dal 161 al 137 a. Cr.) e si
dice che si innalzasse per nove piani raggiungendo i 45 metri.
Il
dagoba Thuparama, il più antico dagoba che si è conservato integro
di Ceylon (ma anche dell'India).
Il padiglione del piano terra era sostenuto da colonne ricoperte in oro:
doveva ospitare i monaci del Mahavihara. Ma dopo soli quindici anni dalla
sua costruzione venne distrutto da un incendio.
Le 1.600 colonne che vediamo oggi dovevano essere i pilastri di fondazione
e sono considerate una ricostruzione fatta da Parakramabahu, re di
Polonnaruwa dal 1153 al 1186, quando progettò di restaurare l'antica
capitale distrutta dall'armata dei principi Chola dell'India del Sud. Scegliamo un cammino che ci porta, attraversando dei verdi prati
all'inglese, verso il dagoba Thuparama.
E' un monumento di grande importanza storica e religiosa: si tratta del dagoba
più antico che si è conservato integro non solo dell'isola di Ceylon, ma
anche dell'India (dove questi edifici prendono il nome di stupa).
Venne edificato da Re Tissa con lo scopo di ospitare due preziose reliquie
di Buddha che gli sarebbero state donate dall'Imperatore Ashoka: la
clavicola destra ed il bossolo delle elemosine.
Si percorre un sentiero che gira attorno all'edificio delimitato da alte
colonne monolitiche, tenendo sempre alla propria destra il dagoba.
Al museo avevamo visto il modellino che ricostruisce come doveva essere il
Thuparama completo della copertura circolare che lo circondava, sotto la
quale si snodava il percorso dei pellegrini, del quale oggi restano solo i
pilastri di sostegno.
Un po' più in là ci sono i resti del vihara (monastero) collegato
probabilmente a questo dagoba.
Una fila di piccoli dagoba, quasi delle cappellette, affianca il
complesso.