Il
dagoba Abhayagiri, quasi completamente sommerso dalla vegetazione.
Dopo il dagoba Thuparama,
incamminandoci sulla destra, riparato da un'orribile edicola in cemento,
c'è la statua del III secolo di un Buddha in meditazione, detto Damadhi
Buddha, nella tipica postura yoga dhyanamudra.
Ma la nostra attenzione è attirata piuttosto dalla notevole mole di un dagoba,
quasi completamente sommerso dalla vegetazione che ricopre la forma di
catino rovesciato: è il dagoba Abhayagiri.
Venne fatto costruire dal Re Vattagamani, dopo esser ritornato al potere
sconfiggendo i Tamil che lo avevano spodestato quattordici anni prima.
Il dagoba sorse, per un voto che aveva fatto il re nel 102 a. Cr.
dopo che era fuggito di fronte agli avversari, sul luogo di un precedente
monastero jainista che fece distruggere.
Il nome Abhayagiri significa "collina della salvezza" o
"collina intrepida", anche se altri sostengono che giri
fosse il nome di un monaco jainista. Attorno al dagoba sorse un
grande monastero buddhista abitato da cinquemila monaci.
Il dagoba venne ampliato almeno una volta sotto il regno di Mahasena nel III
secolo fino a raggiungere i 108 metri di diametro ed un'altezza, in origine,
di oltre 100 metri: ora, per la rottura della cuspide, è alto circa 74
metri.
Nel passato il nome di questo dagoba venne casualmente scambiato con
quello del dagoba Jetavanarama, di simili imponenti dimensioni; di
conseguenza ancora oggi certe guide, non aggiornate, ripetono l'errore.
Giungiamo così al Kuttam Pokuna, una doppia piscina, o piscina gemellata.
I sovrani di Anuradhapura tenevano in alta considerazione la necessità di
conservare l'acqua dalla quale dipendeva la loro esistenza. Numerosi sono i
bacini idrici artificiali presenti, i bagni, i servizi igienici, le
condutture idriche e fognarie che collegavano fra loro palazzi, ospizi,
monasteri.
I bagni erano chiamati pokuna (dal sanscrito puskarani), in
genere avevano una pianta rettangolare, erano ricavati nella roccia oppure
rivestiti di granito.
L'esempio più bello è dato proprio da questa coppia di vasche, chiamata
Kuttam Pokuna: le due vasche sono racchiuse da un'unica cornice e vi si
accede per mezzo di sei gradinate.
Il
Kuttam Pokuna, o "piscina gemellata".
E' interessante notare come le misure delle vasche siano assolutamente
identiche, ad eccezione della profondità che si differenzia per 68
centimetri.
La parte architettonica è molto raffinata mentre l'impianto idraulico è
estremamente ingegnoso ed efficiente.
Mendicanti
e storpi (questo ha un'intera gamba amputata) sul piazzale da cui inizia la gradinata che porta sulla
rocca.
Concludiamo la nostra visita passando accanto al Ratna Prasada, o Palazzo
della Regina, dove fotografiamo una bella pietra di luna.
La denominazione di "palazzo", ricorrente spesso qui ad
Anuradhapura, in realtà non è corretta: spesso si tratta in realtà di
celle monastiche verosimilmente usate per la meditazione.
Ci trasferiamo quindi di una dozzina di chilometri per raggiungere un'altra
località, Mihintale.
Si procede per pochi chilometri sulla strada che porta verso Trincomalee per
girare all'incrocio a destra in direzione di Kandy.
A Mihintale Re Tissa incontrò Mahinda che era stato inviato come missionario
dal padre, il grande Imperatore Ashoka, protettore ed ardente sostenitore del
buddhismo.
La missione di Mahinda ebbe successo ed ottenne la conversione di Re Tissa;
in una successiva missione la sorella Sanghamitta, che era diventata monaca,
portò al re un germoglio dell'albero della Bodhi (risveglio, illuminazione)
che Tissa piantò ad
Anuradhapura e che abbiamo
visto questa mattina.
Fu così che Mihintale divenne uno dei luoghi più sacri del buddhismo
singalese.
Il pulmino ci lascia su di un piazzale dove stanno numerosi mendicanti. Da
qui inizia una scalinata che, con 1.840 gradini, conduce alla collina sacra.
L'inizio
della scalinata con 1.840 gradini che porta verso l'Aradhana
Gala.
Il
Kantaka Cetiya tra la folta vegetazione visto dall'alto dell'Aradhana
Gala.
A
Mihintale
ci sono i resti di un antico ospedale che, si dice, sia uno dei più
antichi al mondo e vicino quelli di un vasto monastero dove risiedevano i
monaci.
Dopo appena un centinaio di metri, al termine della prima rampa di
gradini, svoltando sulla destra raggiungiamo il Kantaka Cetiya, i resti di
un antico dagoba alto circa 12 metri (ma in origine dovevano essere
ben di più) con una circonferenza di 130 metri che poggia su tre
terrapieni sovrapposti che formano altrettante fasce.
Non sappiamo con certezza chi abbia costruito il dagoba, ma si può
comunque considerare uno dei più antichi di Mihintale e può collocarsi,
approssimativamente, tra il II ed il I secolo a. Cr.
Ai quattro punti cardinali ci sono altrettanti altari; tutto attorno sono
visibili delle decorazioni a rilievo con gana (nani), hamsa
(oche) e altri animali tra cui un leone.
Ritornando sulla gradinata ci imbattiamo nelle rovine di altri edifici,
alcuni anche minori dei quali non sappiamo il nome e la funzione: si
trattava forse di ingressi, sale delle assemblee, la sala delle
meditazioni che sembra sorgere da un gruppo di rocce facendo come tutt'uno
con esso, come fosse un masso di fondazione.
Incontriamo poi il monastero Madamaluwa che riceveva l'acqua dal Naga Pond
per mezzo di un ingegnoso acquedotto di pietra, del quale restano alcune
tracce sconnesse.
Due enormi lastre di pietra contengono iscrizioni con cui il re di
Anuradhapura Mahinda IV (X secolo d. Cr.) dettava le regole per il
funzionamento di tutte le attività del monastero.
Il
luogo delle tavole con le iscrizioni; sullo sfondo la
cupola bianca del Mahasaya si confonde con le nuvole.
Il
sentiero scavato nella roccia giunge fino all'Aradhana Gala.
Nel
punto esatto dove, secondo la tradizione, avenne l'incontro di Mahinda con
il Re Tissa, venne costruito il dagoba Ambhastala. Ambha significa
mango, a ricordo dell'indovinello con cui il missionario Mahinda aveva
messo alla prova Re Tissa, affinché scoprisse la verità.
Mahinda, per valutare l'intelligenza di Tissa, chiese al re: «Che
albero è questo?»; il re rispose: «Questo è un mango». E
Mahinda: «Ci sono altri manghi vicino?»; Tissa: «Ci sono
molti manghi». E Mahinda insistette: «Ci sono altri manghi vicino
a questo mango ed agli altri manghi?»; il re rispose: «Ci sono
molti alberi, ma quegli alberi non sono manghi». Mahinda incalzò il
re: «E ci sono altri alberi oltre ai manghi ed agli altri alberi che
non sono manghi?»; Re Tissa rispose: «C'è questo albero di mango».
Così superò la prova.
Ancora oggi qui attorno si vedono piantati numerosi alberi di mango.
Sempre secondo la leggenda, nel costruire questo dagoba fu
incorporata una parte delle ceneri di Mahinda: questo fatto rende ancora
più sacro e venerato il luogo.
Su un pianoro la scalinata scolpita nella roccia prosegue più stretta (ed
è più difficoltosa da percorrere) salendo su una collina, uno sperone di
roccia chiamato Aradhana Gala.
Secondo la leggenda narrata dal Mahavamsa, Mahinda con i suoi compagni
giunse a Ceylon volando ed atterrò proprio su questa cima dove tenne
anche il suo primo sermone.
Dall'alto dell'Aradhana Gala godiamo di un bel panorama sui dintorni
immersi nel verde dal quale spuntano alcuni monumenti, come il dagoba
Mahasaya con i suoi 41 metri di diametro, costruito dal Re Mahadathika
Mahanaga agli inizi del I secolo d. Cr., e il Kantaka Centiya che avevamo
incontrato salendo la prima rampa di gradini del percorso.
Qui ci sono anche alcune grotte: una è indicata per tradizione come
quella che venne abitata da Mahinda e viene chiamata come il "letto di
Mahinda".
Di certo si tratta di grotte che erano abitata da monaci eremiti.
All'interno delle grotte ci sono molte statue di Buddha in differenti
posture.
Uno dei tanti Buddha
in una delle grotte di Mihintale.
Il
tempio-reliquiario del Thuparama, del XII-XIII secolo.
Rifatto
il percorso inverso, scendendo l'antica scala scolpita nel granito,
rimontiamo sul nostro pulmino per raggiungere Polonnaruwa.
Il sole scende velocemente ma è ancora chiaro quando, da una macchia di
verde lungo la strada, esce un elefante con il suo conduttore. D'obbligo
una sosta e tutti giù dal pulmino per fotografare l'animale, quasi
spaventato per tutto l'interesse che si è concentrato su di lui.
Un
elefante sbuca da una macchia lungo la strada.
E' notte quando, dopo un centinaio di chilometri, ci sistemiamo in una rest
house vicina alle rovine della terza antica capitale di Ceylon.
La storia di Polonnaruwa è piuttosto complessa e risente delle vicende
che hanno attraversato l'isola: il paese venne fondato in epoca
sconosciuta ed originariamente sembra si chiamasse Toparé, per la sua
vicinanza con il lago Topa Wewa. Nonostante la capitale fosse Anuradhapura,
Polonnaruwa crebbe d'importanza nel VII secolo quando divenne una
residenza reale temporanea con il Re Aggabodhi IV (667-683 d. Cr.) e
vennero costruiti edifici anche monastici.
I Chola, conquistato il regno singalese e distrutta la capitale
Anuradhapura nel 993, fissarono qui la loro capitale. Vi costruirono
edifici monumentali che rispecchiavano le loro concezioni religiose, il
brahmanesimo, ed i loro templi shivaiti accolsero le statue in bronzo di
Nataraja, Shiva e Parvati.
Oggi alcune di queste statue, scoperte a cavallo tra l'Ottocento ed il
Novecento, sono ospitate allo Sri
Lanka National Museum di Colombo.
Nel 1070 Polonnaruwa venne riconquistata sancendo la restaurazione della
monarchia singalese. Polonnaruwa rimase capitale e vide il rifiorire del
buddhismo dopo la parentesi dei sovrani Chola: sorsero così nuovi templi
e, nonostante un periodo di rivalità intestine tra i principi,
Polonnaruwa continuò ad arricchirsi, soprattutto sotto il regno di
Parakramabahu (1153-1186), di belle architetture la cui raffinatezza non
venne più raggiunta dai sovrani successivi.
All'inizio del XIII secolo venne conquistata dai Tamil, occupata e saccheggiata,
i monasteri spogliati, la biblioteca data alle fiamme mentre la
popolazione fu costretta a sopportare ogni genere di abusi.
Seguirono anni turbolenti con diverse fazioni in gioco per la supremazia
durante i quali, per soli sei anni dal 1287 al 1293, ritornò effimera
capitale, Alla fine, persa ogni importanza, Polonnaruwa venne
definitivamente abbandonata ed inesorabilmente fagocitata dalla giungla
fino agli inizi del Novecento.
Ancora oggi, attorno agli spazi ripuliti degli scavi archeologici, vediamo
la presenza poderosa della giungla con alberi dalle forme bizzarre e le
radici poderose, spesso abbracciati da piante parassite dove, qua e là,
si elevano frequenti termitai alti un paio di metri.
Il sito si estende da Sud a Nord per circa nove chilometri: è quindi
assai vasto e per spostarci ci serviamo, almeno in parte, del nostro
pulmino.
Il
Vatadage di Polonnaruwa.
Per
motivi di tempo tralasciamo le rovine più a Sud, quelle di un monastero
buddhista, il Poth Gui Vihara, e dell'enorme statua scolpita a sbalzo sulla
roccia che la tradizione vuole che rappresenti il Re Parakramabahu I. Siamo subito al complesso detto della Cittadella che sorge proprio di
fronte al Parakrama Samudra, un immenso lago artificiale le cui origini
sembrano risalire all'XI secolo.
La Cittadella era protetta da un grandioso sistema di fortificazioni con
alte mura «...che scintillavano come nubi d'autunno nel loro
rivestimento di stucco intonacato».
Delle antiche fortificazioni resta una cinta muraria diroccata all'interno
della quale c'era il palazzo reale: le cronache ci dicono che aveva mille
stanze e si elevava per sette piani. E' difficile immaginare come fosse,
in quanto oggi resta ben poco in piedi, oltre al ciclopico portale
d'ingresso costruito, come tutto il resto, in mattoni che formavano pareti
di grande spessore.
Proseguendo per qualche centinaio di metri ci imbattiamo nella massiccia
mole del Thuparama, una "casa delle immagini" risalente al
XII-XIII secolo, anch'esso costruito in mattoni.
Era un tempio reliquiario che conserva ancora oggi la volta.
Le
spesse mura interne del Thuparama.
Le pareti, anche queste di uno spessore importante, sono decorate da modanature,
nicchie e bassorilievi; la sua architettura si ispira allo stile indù con
dei richiami a quello chola.
All'interno vediamo varie statue di Buddha, in differenti posture.
Poco più in là incontriamo un santuario a pianta circolare, il Vatadage,
forse il più antico monumento di Polonnaruwa.
Si tratta di una struttura buddhista che è unica per l'antica architettura
dello Sri Lanka. I Vatadage erano costruiti attorno ai dagoba, allorché questi
custodivano una qualche sacra reliquia, oppure erano edificati su un luogo
considerato sacro.
Quattro scale scolpite, ai quattro punti cardinali, portano alla
piattaforma circolare la cui balaustra ha un bel motivo scolpito. Ciascuna
scala è affiancata dalle immagini dei guardiani ed inizia con una bella
pietra di luna.
Delle file concentriche di colonne in pietra circondano l'edificio
rotondo: sicuramente sostenevano un tetto in legno che serviva a coprire
un corridoio di deambulazione dei fedeli attorno al dagoba,
similmente a quanto avveniva al Thuparama di
Anuradhapura.
Pare che di questi tipi di costruzioni (Vatadage) ne esistano solo una
decina in tutta l'isola e questo di Polonnaruwa sarebbe il meglio
conservato.