Un po' più avanti, sulla sinistra,
incontriamo l'Hatadage, il tempio del sacro dente di Buddha, che tra varie
peregrinazioni giunse fin qui assieme alla ciotola con cui Buddha chiedeva
l'elemosina.
Due reliquie preziose non solo sotto l'aspetto spirituale, ma anche
temporale, che legittimavano chi le possedeva ad esercitare la sovranità.
Era dunque forse l'edificio più sacro di Polonnaruwa, fondato ai tempi di Re Vijayabahu I (1055-1110) con le colonne dalla curiosa forma sinusoidale,
come fossero i fusti di altrettante piante rampicanti.
L'Hatadage
costruito per conservare il sacro dente di Buddha.
In fondo, al centro, c'è la vera e propria casa delle sacre reliquie,
costruita
sotto il regno di Nissankamalla (1187-1196), l'unico santuario buddhista di
Polonnaruwa con le pareti interamente in pietra, fino in alto; anch'esso è
dotato di pietre di luna ai quattro punti cardinali.
La
sommità del Rankot Vihara.
A destra di questo complesso c'è un "libro di pietra", il Gal
Pota, un enorme blocco di pietra alto m. 1,40 per 8 metri di lunghezza, del
peso di 25 tonnellate, a forma di libro di foglia di palma.
Pare che sia stato portato qui da oltre 90 chilometri di distanza.
E' ornato di
bassorilievi, e reca incisa una lunga iscrizione che esalta le doti e le
virtù di Re Nissankamalla e ne loda le sue conquiste, soprattutto in India.
Subito dopo vediamo il Sat Mahal Pasada, un curioso dagoba di sette piani la
cui struttura piramidale ricorda quella dei templi di Angkor, il che
potrebbe avvalorare l'ipotesi che servisse da luogo di culto per i mercanti
ed i mercenari cambogiani ospitati presso i re singalesi.
Superiamo i resti di altri edifici, pietre con frammenti di bassorilievi, e
ci approssimiamo al Rankot Vihara, un enorme stupa di grandi dimensioni (55
metri di altezza) la cui cupola, da metà altezza in su, è completamente
ricoperta di arbusti e di una fitta vegetazione che ne nasconde la
struttura: dalle piante svetta in alto il pinnacolo terminale che chiude il
disegno architettonico del tempio.
E' circondato tutto attorno da una serie di cappelle in mattoni, adornate di
bassorilievi, molte semidistrutte, altre invece che ancora conservano delle
statue di Buddha.
Il
Rankot Vihara semisommerso dalla vegetazione.
Il
gruppo dell'Alahana Parivena con, sullo sfondo, la mole del Kiri Vihara.
Le
cronache antiche chiamano questo stupa come Ruvanvali e la sua costruzione
viene attribuita al Re Nissankamalla, tuttavia per la sua struttura e le
sue dimensioni ciclopiche richiama un tipo di costruzione che veniva fatta
ad Anuradhapura nel suo periodo di massimo splendore.
La nostra visita continua lungo un sentiero che costeggia macchie di
vegetazione che si alternano a spiazzi dai quali emergono pietre e rovine
alle quali spesso non sappiamo dare un nome.
Non ci sono molti visitatori che evidentemente sono attirati soprattutto
dai monumenti più famosi della Cittadella.
Possiamo così passeggiare tranquillamente, praticamente da soli, tra
queste rovine ancora semisommerse dalla giungla.
Tutta l'area prende il nome di Alahana Parivena dal monastero principale
di Polonnaruwa che era situato qui dopo che il Re Parakramabahu aveva
riformato i vari ordini monastici unificandoli secondo un'unica gerarchia.
Il nome deriva da Alahana, che era il nome del cimitero che esisteva
ancora prima della costruzione del monastero, mentre Parivena era il nome
di una scuola per monaci.
Nonostante gli edifici monastici siano oggi solo delle rovine, essi
continuano ad essere considerati dei luoghi sacri e continuano a ricevere
la visita di pellegrini e fedeli. Conseguentemente per entrare tra i resti
dei monasteri dobbiamo toglierci le scarpe.
Il
Gal Vihara: il Buddha in meditazione con le mani in posizione "dhyana
mudra".
Qui
ci sono anche alcune grotte che erano le prime antiche abitazioni dei
monaci che vi vivevano, mangiavano, dormivano e soprattutto si appartavano
per la meditazione. In una di queste grotte è stata trovata un'iscrizione
che testimonia l'antica occupazione del sito da parte dei monaci buddhisti
nel V secolo d. Cr.
Il monastero è sempre restato in relazione con il cimitero ed il luogo
delle cremazioni: le ceneri dei monaci più santi e dei membri della
famiglia reale venivano interrate negli stupa vicini.
L'edificio maggiore del gruppo Alahana Parivena è anche il santuario più
importante, meta ancora oggi di fedeli buddhisti: il Lankatilaka, ovvero
"il gioiello di Lanka".
Si tratta di una struttura in mattoni di grandi dimensioni, alta 16 metri
(anche se in origine doveva giungere ad una trentina di metri d'altezza),
larga 20 metri e lunga 37.
Il tetto non c'è più. All'esterno ci sono numerosi rilievi che mostrano
architetture di numerosi edifici: sono documenti preziosi per gli studiosi
in quanto consentono di ricostruire le forme architettoniche di edifici
antichi dei quali oggi ci restano solo rovine.
Le pareti interne invece erano decorate con stucchi e dipinti, questi
ultimi totalmente perduti.
All'interno del santuario, costruito dal Re Parakramabahu, è custodita
una colossale statua di Buddha, oggi acefala, alta 14 metri.
L'enorme
statua di Buddha alta 14 metri all'interno del Lankatilaka.
Considerando che il santuario era chiuso, coperto dal tetto, con poca
luce, al fedele questa immagine ciclopica di Buddha doveva apparire
misteriosa, inquietante e divina mentre osservava dall'alto dei suoi 14
metri d'altezza.
Un po' più in là vediamo la sagoma chiara del Kiri Vihara, lo stupa
"bianco-latte" che deve il suo nome alla copertura di stucco di
gesso che aveva in origine, il chunam, che era ben visibile ancora
alla fine del XIX secolo, come testimoniano vecchie fotografie, quando venne
liberato dalla vegetazione della giungla.
Si ritiene che sia stato costruito per ordine forse di una regina di
Parakramabahu. Tuttora è uno degli stupa di epoca medievale meglio
conservato di Sri Lanka.
Ritroviamo il nostro pulmino sul quale montiamo per avviarci verso
l'uscita dal complesso di Polonnaruwa.
Lungo la strada ci fermiamo per l'ultima visita, il Gal Vihara.
Si tratta di un vero e proprio santuario di roccia, scavato e scolpito
nella pietra, dove si può ammirare quello che, forse tra tutti, può
essere la più
grande statua del Buddha disteso.
Complessivamente sono quattro le statue di Buddha scolpite direttamente su
un unico sperone di roccia granitica.
Il volto di Buddha, in tutte le statue, esprime un contagioso stato di
serenità: ci sono due Buddha assisi in meditazione con le mani in
posizione dhyana mudra, un Buddha in piedi ed uno disteso.
In origine tutte e quattro erano protette da una custodia
individuale.
Risalgono all'XI secolo, anche se forse il Buddha racchiuso in una specie
di cripta potrebbe risalire al X secolo.
Il Buddha più impressionante è quello disteso, se non altro per le sue
dimensioni: 14 metri di lunghezza. Forse la misura non è casuale e
potrebbe avere un qualche significato, dato che anche la statua
all'interno del Lankatilaka è alta 14 metri.
La testa
è poggiata su un cuscino. Questa posa ha fatto discutere molto gli
studiosi, divisi fra due scuole di pensiero: è un Buddha addormentato o
forse un Buddha nel Parinirvana?
Effettivamente nei canoni artistici di Sri Lanka la posa dormiente è solo
leggermente diversa e spesso viene confusa con quella del Paranirvana che
prevede, tra l'altro, che il corpo sia adagiato sul fianco destro con la
testa rivolta a nord. Attualmente questa è anche l'ipotesi più
accreditata: rappresentazione di Buddha nel Paranirvana.
Il
Gal Vihara in una vista d'assieme che racchiude il Buddha in piedi con
quello disteso.
Il
Gal Vihara con una prospettiva sul Buddha disteso, probabilmente nel
Paranirvana.
L'ingresso
al palazzo di Kasyapa avveniva (ed avviene) passando tra le due zampe
anteriori del leone.
Lo
scultore con grande abilità ha approfittato delle striature naturali
della roccia per sottolineare il fine e sottile panneggio della veste di
Buddha.
Anche la statua vicina (il Buddha in piedi) è stata oggetto di
discussioni: alta sette metri, nel passato qualcuno ha ipotizzato che
volesse raffigurare il suo discepolo Amanda che piange la morte del
maestro.
Oggi tutti sono pressoché concordi nel ritenere tutte e quattro le statue
come rappresentazioni di Buddha.
Rientriamo nella rest house: oggi abbiamo camminato un bel po' per
Polonnaruwa e domani ci attende una giornata intensa di visite e di
trasferimenti.
Sveglia presto, bagagli pronti e colazione.
Si lascia la rest house di Polonnaruwa di buon'ora e percorriamo il
solito panorama fatto di verde, di giungla, di vegetazione lussureggiante.
Dopo una settantina di chilometri, dal piatto della foresta comincia ad
emergere in lontananza, isolata, un'enorme roccia che galleggia sul verde.
E' questa Sigiriya, la rocca del leone, per 18 anni (dal 477 al 495 d. Cr.)
effimera seconda capitale della regione.
La
rupe di Sigiriya.
Una guerra parricida portò la capitale qui, allorquando Kasyapa, figlio
del re di Anuradhapura Dhatusena, uccise il padre per impadronirsi del
potere. Si dice che lo fece morire murandolo vivo.
Il fratello di Kasyapa, Mogallana, trovò scampo fuggendo e riparando in
India.
Ma non dovette essere un bel vivere quello di Kasyapa: temendo vendette
spostò la capitale qui costruendo sulla rupe, isolato e protetto dal
mondo, il suo palazzo fantastico.
Una rupe che a tutti doveva sembrare un leone: parricida, ma con l'animo
dell'artista, chiamò i migliori architetti che con un'operazione quasi
alchemica trasformarono la rupe nella sagoma di un leone, aggiungendo
elementi architettonici a quello che madre natura aveva creato e modellato
nei millenni.
Per accedere alla cima, si doveva passare attraverso le zampe anteriori
(alte tre metri) del leone ed una scala conduceva all'interno della sua
bocca.
Il nome Sigiriya infatti è formato dalle parole sig (leone), ghiri
(montagna) e yar (gola) e significa "montagna gola del
leone". Con questo simbolismo Re Kasyapa proponeva se stesso come re
leone del suo popolo.
Un percorso sospeso nel vuoto portava poi ai vari terrazzamenti dove, sul
più protetto ed inaccessibile, sorgeva il palazzo reale, tra bastioni
naturali e pareti impenetrabili: un complesso dove le sale erano grotte e
altre grotte erano le stanze ed i corridoi. Tutto collegato da un sistema
di scale, gallerie, viottoli, passaggi.
Poco servì tutto questo a Re Kasyapa: il fratello Mogallana tornò
dall'India con delle proprie truppe riuscendo a circondare il fratello. In
un epico scontro, vistosi perduto, Kasayapa si suicidò sul suo elefante
di guerra e Sigiriya restò abbandonata per mille anni, sommersa dalla
giungla, fino a quando venne "riscoperta" alla fine del XIX
secolo dagli archeologi.
La salita alla rupe avviene sul lato ovest. Per un tratto il passaggio
prende il nome di "muro a specchio" per via della superficie
interna del muro perfettamente liscia e levigata con un intonaco dove è
stata usata anche della cera d'api.
Il
"muro a specchio" sulla parete occidentale della rupe.
Ma l'interesse per questo muro è dato soprattutto dai migliaia di
graffiti che sono stati incisi (quasi un migliaio sono quelli decifrati) dai
pellegrini che nei secoli passati sono saliti per ammirare gli affreschi
sulla parete. Queste scritte risalgono ad un periodo compreso tra il VI
secolo e gli inizi del XIV: sono parole di ammirazione di questi antichi
"turisti" ante litteram, comprese alcune poesie.
Alcune
delle "apsaras" di Sigiriya che si sono conservate fino ad
oggi.
Continuiamo a salire e troviamo
solo una scala metallica a ridosso della parete di roccia: c'è una sorta di
nicchia naturale sulla parete protetta da una sporgenza.
In questa posizione, oggi inaccessibile senza ponteggi, furono eseguiti i
dipinti che possiamo ammirare.
In origine dovevano essere oltre cinquecento le figure di fanciulle celesti
(apsaras), oltre ad un numero sconosciuto di altri dipinti, a
decorare i giardini di Sigiriya.
Oggi sono rimaste solo 21 figure femminili, o meglio la parte superiore del
loro corpo che emerge, forse, dalle nuvole.
I dipinti, che spesso sono chiamati affreschi, in realtà pare siano stati
eseguiti a tempera alla fine del V secolo, nello stesso periodo delle più
antiche pitture di Ajanta.
Le fanciulle sono adornate di diademi e di gioielli, come le fanciulle della
mitologia indù: alcune sembrano avere il petto nudo, ma potrebbero essere
coperte da un leggerissimo e trasparente velo superiore. I fianchi a volte
sono cinti da una veste che sembra ricordare il pareo delle donne tahitiane.
Le loro figure sono in pose armoniosamente appena ricurve.
L'identificazione delle fanciulle non è facile: sono delle semplici
mortali, delle principesse dell'harem con le loro ancelle? Oppure
delle fanciulle celesti?
L'impegnativa
discesa dalla rocca di Sigiriya.
Come spesso accade nell'arte asiatica, la stessa immagine può avere più
interpretazioni. Ecco allora che Kasyapa potrebbe farsi paragonare al dio
Kubera (il dio della ricchezza) ed in questo modo le donne della sua corte
assumono il significato di ancelle celesti del dio Kubera.
Salendo ancora, arriviamo alla piattaforma del leone, sul lato
settentrionale della rupe.
Per salire alla Cittadella il visitatore veniva a trovarsi stretto tra le
due zampe. Oggi restano solo le due zampe con i mattoni a vista, ma in
origine qui era rappresentata l'intera parte anteriore del leone alta 14
metri con i mattoni ricoperti di stucco ed intonaco, per dare un'immagine
ancora più realistica, che doveva mettere in timorosa soggezione chi si
avvicinava.
I passaggi per salire sono arditi, almeno per un turista
"normale" che non sia uno scalatore, e si inerpicano in
sicurezza attorno alle pareti a precipizio.
Molti tratti sono protetti da una fitta rete: non è lì per proteggere da
una caduta sassi, ma dall'assalto di calabroni molto aggressivi: ci dicono
che le punture di cinque di questi insetti sarebbero sufficienti per
uccidere un uomo. Forse è un'esagerazione, ma non abbiamo voluto
controllare!
Giungiamo così sulla piattaforma ultima della rocca di Sigiriya, la
Cittadella, dove viveva isolato dal resto del mondo Re Kasayapa.
Recluso
nel suo palazzo in cima alla rocca, così Re Kasayapa doveva
vedere quello che lo circondava.
Vediamo la cisterna scavata nella roccia che serviva da serbatoio d'acqua.
Gli altri edifici che costituivano la sua reggia sono spariti, o ne sono
rimaste le labili tracce delle fondazioni.
Forse tutto è stato distrutto per vendetta dal fratello Mogallana.
C'è ancora il trono in granito rosa di Re Kasayapa rivolto verso oriente,
dove sorge il sole.
Da qui vediamo lo stesso splendido paesaggio che doveva ammirare Kasayapa,
ma su tutto aleggia una pesante impressione di solitudine, la stessa che
deve aver patito per diciotto anni il re parricida.
La discesa dalla rocca avviene per lo stesso percorso dell'andata: ma
scendere è sempre più difficile che salire!
Sappiamo che attorno alla base del blocco roccioso sono state trovate
tracce di fondazioni di quello che forse era il villaggio che era
cresciuto vivino, ancora oggetto di scavo da parte degli archeologi. Vi
si trovano anche alcune grotte, dove alcune iscrizioni attestano che il
luogo fosse abitato da monaci buddhisti in un periodo che va,
approssimativamente, dal II secolo a. Cr. al XIII secolo d. Cr.
Raggiungiamo il pulmino per spostarci su di un'altra rocca, quella di
Dambulla.